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Non sono un fan della parola diversità. Non è che io sia contrario a fare esperienza di altre culture, gusti e personalità. È che non so cosa intendano le persone quando parlano di “diversità”. A seconda della persona con cui si parla, la diversità include tutto: dal relativismo all’armonia razziale fino all’espressione personale senza alcun freno. Diversità è una parola che abbraccia molte buone idee, ma è anche diventata sinonimo di molte idee stupide.

Quindi non sono innamorato della parola (abusata) “diversità”. Tuttavia voglio difendere la diversità in un’area importante: le canzoni che cantiamo in chiesa. Credo sia molto positivo per le nostre chiese cantare canzoni di epoche, tradizioni e stili diversi.

Prima di evidenziare quattro tipi di canti in particolare, permettetemi di fare quattro commenti generali. Primo: le canzoni che cantiamo durante il culto comunitario devono essere biblicamente e teologicamente valide. Nessuna canzone ottiene un pass gratuito solo perché è “diversa”. Non importa quanto la musica sia fantastica, commovente o orecchiabile: se le parole puzzano, non dovremmo cantarla.

Questo porta a un secondo commento correlato. Sebbene nella nostra adorazione vogliamo cantare canzoni profonde e teologicamente ricche (canti sull’elezione, la Trinità, l’espiazione, la sovranità di Dio), non c’è bisogno che cantiamo tutta la nostra teologia in ogni canzone. Di certo non vogliamo che i testi siano fuorvianti o presentino mezze verità, ma possiamo cantare verità semplici. Se tutto ciò che cantiamo sono le verità bibliche più basilari, è vero che non stiamo rendendo giustizia all’intero consiglio di Dio, ma è anche vero che un arrosto con purè di patate ha bisogno di un contorno di insalata e di un po’ di dolce. In altre parole: non c’è niente di sbagliato nel cantare “Gesù m’ama, questo so” o “Ti amo o Dio” o “Dio è buono”. Questi canti possono anche non scandagliare le profondità teologiche, ma dicono verità bibliche e lo fanno con la fiducia pura dei bambini. Le canzoni con livelli semplici di verità non dovrebbero essere l’alimento base della nostra dieta musicale, ma dovrebbero comunque trovarsi nel nostro piatto.

Terzo: la ricerca della diversità musicale non dovrebbe eliminare la particolarità del culto di una chiesa. Intendo dire che va bene che la Oakdale Community Church sia la Oakdale Community, che la First Baptist sia la First Baptist, che i fedeli in un remoto villaggio indiano adorino come, be’, indiani. Uno dei problemi con la diversità come viene a volte interpretata è che in realtà opera contro la diversità genuina. Invece di essere gruppi di persone o chiese che si godono la loro particolarità, si dilettano (solitamente in modo superficiale) in ogni altra cultura. Il risultato è che, in nome della diversità, ogni chiesa o gruppo finisce per assomigliare allo stesso esperimento multiculturale.

Ma vorrei affrettarmi ad aggiungere un ultimo commento generale. Sebbene sia del tutto appropriato per una chiesa avere un “centro” dal punto di vista musicale, ciò non significa che dovremmo cantare solo da quel “centro”. Come ho sentito dire di recente da un oratore, va bene (ed è inevitabile) per una chiesa avere una cultura e una tradizione, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo una cultura per non diventarne schiavi. Ciò che sto sostenendo è qualcosa che si trova tra l’avanguardia e lo status quo. Da un lato le chiese hanno bisogno di cantare inni familiari, se si vuole che il canto della congregazione sia appassionato e coinvolto. Dall’altro le chiese devono essere spinte ad imparare nuove canzoni al di fuori del loro “centro”. Come D.A. Carson afferma: “L’importanza dell’intelligibilità (nella musica, diciamo) deve quindi essere giustapposta alla responsabilità di espandere gli orizzonti limitati di una tradizione ristretta”.

Con questo in mente, e alla ricerca di un giusto tipo di diversità, permettetemi di menzionare quattro diverse “tradizioni” di canti che dovremmo cantare e che stiamo, credo, cantando.

Salmi

I Salmi rappresentano il libro dei cantici della chiesa da duemila anni. Sono anche ispirati da Dio e destinati ad essere cantati. È triste, quindi, che così poche chiese in nord America, e non solo, cantino regolarmente i Salmi. Alcuni gruppi cristiani cantano solo salmi. Questo va troppo oltre secondo me, ma cantare i Salmi in modo inclusivo è un’ottima idea. Cantare i Salmi ci mantiene reali, poiché danno espressione all’intera gamma delle emozioni umane: lamento, gioia, angoscia, dubbio, speranza, desiderio, confusione, giubilo, contrizione e paura. Vale la pena meditare sulle parole di Carl Trueman, nel suo piacevolissimo saggio “What Can Miserable Christians Sing?” (“Che possiamo cantare noi miseri credenti?”, N.d.T.): “Escludendo dalla sua adorazione le grida di solitudine, espropriazione e desolazione, la chiesa ha di fatto messo a tacere ed escluso le voci di coloro che sono essi stessi soli, espropriati e desolati, sia dentro che fuori dalla chiesa”. I Salmi sono ciò che i miseri credenti possono cantare.

Inni

Gli “inni” rappresentano un’ampia categoria in cui sono presenti dozzine di stili e tradizioni diverse. Uso il termine in modo approssimativo per riferirmi alle canzoni che troviamo negli innari: canti di Wesley, Watts e Winkworth (cerca il cognome di questa donna, potresti trovarla ampiamente nel tuo innario), i canti della chiesa primitiva, della Riforma e del Grande Risveglio, canti di monaci, puritani ed evangelisti. Gli inni non sono perfetti (ad esempio, “la mia fede ha trovato un luogo di riposo non né nell’artificio né nel credo”), ma hanno almeno tre vantaggi rispetto alle canzoni più recenti.

Uno: gli inni, avendo le note scritte sulla pagina ed essendo le loro melodie più adatte al pianoforte che alla chitarra, sono spesso più facilmente cantabili da grandi gruppi.

Due: gli inni, esistendo da decenni e spesso da secoli, hanno subito una maggiore epurazione. La pula è stata setacciata ed è rimasto il grano. Se i credenti hanno cantato un canto per 1500 anni, è probabile che ci sia qualcosa di buono in esso. La maggior parte degli inni è semplicemente migliore dal punto di vista musicale, lirico e teologico rispetto alla maggior parte delle canzoni più recenti.

Terzo: gli inni ci legano al passato e alla comunione dei santi di tutte le generazioni. Gli inni ci proteggono dai nostri punti ciechi culturali e dalle idiosincrasie storiche.

Canzoni contemporanee

Come per gli “inni”, con “canzoni contemporanee” intendiamo un termine così ampio da essere quasi privo di significato. Quando parlo di “musica contemporanea” intendo, dal punto di vista cronologico, canzoni scritte da quando sono vivo; dal punto di vista stilistico, canzoni che potresti ascoltare in radio; musicalmente, canzoni che probabilmente utilizzano chitarra, batteria, tastiera o una combinazione di questi e altri strumenti. Molti cristiani conservatori, compresi alcuni che rispetto molto, sanno essere molto duri con la musica contemporanea, chiamandola “musica banale” o “canzoni 7-11” (7 parole cantate per 11 volte) o “teologia incentrata sull’io”. Indubbiamente si possono trovare canzoni recenti che si adattano a tutte quelle critiche. Ma ci sono buone ragioni per cantare canzoni contemporanee (che a volte sono solo vecchi inni messi su musica più recente, come alcune delle canzoni “Passion songs” e l’intero movimento della Reformed University Fellowship). Non solo le canzoni più recenti a volte danno voce al modo di esprimersi di una generazione più giovane, ma possono essere potentemente vere e teologicamente ricche. Si pensi a canzoni come “Blessed be Your Name” di Matt Redman o a “In Christ Alone” di Towend e Getty o a “Knowing You” di Graham Kendrick o ad altre di Sovereign Grace. In effetti alcune canzoni contemporanee sono piuttosto simili agli inni.

Nessuna generazione di cristiani ha il diritto di smettere di includere nuove canzoni. Immagina se la chiesa, dopo la Riforma, avesse smesso di cantare nuove canzoni solo perché erano nuove. Nessun “And Can it Be”, nessuna “Amazing Grace”, nessun “Holy, Holy, Holy”. Che peccato! Per fortuna l’ultima, ottima e ricca canzone per il culto comunitario non è ancora stata scritta. E grazie a Dio la musica per l’adorazione oggi è più matura, più incentrata su Dio e più cantabile di quanto non lo fosse un decennio o due fa.

Canzoni non-anglosassone

Questa categoria è completamente artificiale, lo ammetto. Non esiste una tradizione musicale “non anglosassone”. Esistono canzoni spagnole, canti zulù e gospel afroamericani, ma queste sono tradizioni tutte loro, meritevoli di un nome che sia molto più di una semplice descrizione di ciò che non sono: non anglosassoni. Ma, anche usando questa categoria un po’ goffa, penso che si possa capire il mio punto. Dovremmo cantare canzoni che non provengono dalla cultura maggioritaria delle nostre chiese (scrivendo dalla mia prospettiva di uomo bianco appartenente ad una chiesa frequentata per lo più da bianchi).

Cantare canzoni non anglosassoni (con traduzione, se necessaria) ci fa bene non solo perché allarga i nostri orizzonti, ma anche perché non siamo tutti anglosassoni e bianchi! Potremmo non cantare mai “proprio come la chiesa nera in quella via laggiù” o “proprio come la mia chiesa in Nigeria”, ma non è questo il punto. Non sono imbarazzato dal fatto che mi piaccia Isaac Watts, ma non dovrei nemmeno arrancare su un ritornello spagnolo o essere imbarazzato a battere le mani su una canzone gospel. Cantare queste canzoni ha molti vantaggi. Ci preserva dal rilassarci compiaciuti nella nostra tradizione o nelle nostre preferenze, ci ricorda che Dio è il Dio di tutti i popoli, dà voce ad altre tradizioni in mezzo a noi.

Non sto discutendo per un’implementazione meccanica di Salmi, inni, canzoni contemporanee e canzoni non anglosassoni. Non dovremmo fare una settimana di Salmi e un’altra settimana di canzoni non anglosassoni, e non dobbiamo per forza avere tutte e quattro le categorie in ogni culto. Ma cantare secondo queste quattro tradizioni, come facciamo spesso, fa bene alla nostra chiesa: in questo modo nessuno può affermare in modo assoluto che “qui si canta il mio tipo di musica”. E allora Cristo (cantato nei nostri canti, richiamato nelle nostre preghiere e annunciato nella predicazione) sarà il collante che ci tiene uniti, e non la musica. Questo è il tipo di unità nella diversità che vale la pena celebrare.

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