Sei entusiasta il lunedì mattina? Se è così, buon per te! Ma per molti di noi non è così.
Il nostro lavoro ci mette alla prova e minaccia di logorarci. Perciò, in che modo si può essere devoti a Gesù Cristo in ambienti di lavoro competitivi – e spesso spietati e precari? E in quelli fastidiosamente mondani?
Nel loro nuovo libro, The Gospel at Work: How Working for King Jesus Gives Purpose and Meaning to Our Lives (Zondervan), Greg Gilbert e Sebastian Traeger mettono a disposizione la loro esperienza pastorale e lavorativa per affrontare una vasta gamma di questioni riguardanti il rapporto tra fede e lavoro.
Ho parlato con Gilbert (pastore della Third Avenue Baptist Church di Louisville) e Traeger (imprenditore a Washington D.C.) di idolatria e di ozio, della mentalità di chi “lavoricchia” in attesa del weekend, di come i pastori possono incoraggiare le persone nel loro lavoro e di altro ancora.
Se questo libro “non è una teologia del lavoro”, che cosa vi proponete di realizzare con The Gospel at Work?
Quando diciamo che il libro non è una teologia del lavoro, non intendiamo certo dire che esclude la teologia! Non stiamo cercando di dire tutto quello che si potrebbe dire sul tema del lavoro, e di certo non stiamo cercando di esprimere un parere su ogni domanda che le persone pongono in merito al lavoro e al suo ruolo nel piano di Dio. Ciò non toglie che l’intero libro sia costruito sulla teologia. Dopotutto, la teologia spiega perché il nostro lavoro a volte è così frustrante, perché possiamo esserne tanto assorbiti e perché vi si possono trovare così tante situazioni conflittuali. E, in definitiva, la teologia ci aiuta a capire come dovremmo davvero pensare al nostro lavoro, come essere incoraggiati mentre lo facciamo e come farlo bene.
Vogliamo incoraggiare i cristiani sul posto di lavoro, qualunque cosa significhi nella loro situazione particolare, a vedere ciò che fanno alla luce del vangelo di Gesù Cristo e quindi a farlo con libertà, energia e gioia. Vogliamo che si rendano conto che, a prescindere dai particolari del loro lavoro in questo momento, in fondo stanno lavorando per il Re e questa prospettiva cambia tutto.
Molti di noi tendono all’idolatria vocazionale, agendo come se il lavoro fosse la chiave per la nostra piena realizzazione. Quali sono i segnali che indicano che stiamo cedendo all’idolatria del lavoro?
Fare del nostro lavoro un idolo è estremamente facile. Il lavoro diventa la fonte primaria della nostra gratificazione, ciò che dà un senso e un significato alla nostra vita. L’idolatria si manifesta non solo con un numero eccessivo di ore di lavoro, ma anche con un cuore che trova il suo senso di benessere in ciò che fa: se il lavoro va bene e le nostre “quote” professionali sono in crescita, pensiamo che la vita sia bella e ci sentiamo al sicuro, ma quando le cose non vanno bene, il nostro senso di benessere si affievolisce o addirittura crolla.
Se osservi attentamente il tuo cuore, puoi vedere questo tipo di idolatria presentarsi in molte maniere diverse nel modo in cui pensi al tuo lavoro. Forse pensi al lavoro soprattutto come a un modo per farti un nome o per garantirti una certa stabilitá. Questo non vuol dire che sia totalmente sbagliato voler avere successo o voler fare soldi per avere un’influenza, ma solo che se una di queste cose diventa il principale elemento caratterizzante del vostro lavoro e il motivo per cui lo fate, dovreste esaminare il vostro cuore e assicurarvi di non aver permesso al lavoro di diventare un idolo.
Ma ecco il punto: quando ci si rende conto che in realtà e in ultima analisi lavori per il Re Gesù – al suo comando, secondo il suo piano e per la sua gloria – questa consapevolezza elimina la radice dell’idolatria. Grazie al lavoro svolto da Gesù per noi, abbiamo già tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Senso di identità, di appartenenza, di accettazione, l’amore e il perdono, un senso per la vita e una ricompensa… tutto questo è già nostro, grazie a Gesù! E questo significa che non dobbiamo più cercare queste cose in ciò che non ha mai potuto procurarcele cioè, il nostro lavoro. Al contrario, ci rendiamo conto che il nostro lavoro è un’arena in cui Dio opererà in noi e attraverso di noi per renderci più simili a Gesù e per glorificare se stesso.
Altri di noi tendono all’ozio vocazionale, agendo come se a Dio non importasse nulla del nostro lavoro. Quali sono i segnali che indicano che stiamo cedendo all’ozio sul lavoro?
L’ozio sul lavoro è l’altro grande problema che i cristiani tendono ad avere quando si tratta del loro lavoro. Al livello più estremo, “ozio” significa non lavorare. Perdere tempo, battere la fiacca e, in generale, essere improduttivi. Questo è un problema. Ma anche “fare quello che devi” non significa che tu stia evitando l’ozio, perché il problema più profondo non è tanto l’ozio delle mani, quanto l’ozio del cuore. In altre parole, molti eseguono i movimenti – e li eseguono persino con efficienza e produttività – ma hanno perso di vista gli scopi di Dio per loro. Quando Paolo dice che dobbiamo svolgere il nostro lavoro “con semplicità di cuore, temendo il Signore […] come per il Signore” (Cl 3:22-23), intende dire che il nostro lavoro stesso dovrebbe essere un atto di adorazione al nostro Re.
Come fai a sapere se il tuo cuore tende all’ozio? Alcuni sono arrivati a vedere il proprio lavoro come un semplice mezzo per raggiungere un fine. “Lavoro per poter giocare”, o “lavoro per avere da vivere”, o anche “lavoro per poter donare alla mia chiesa”. Cosa c’è di sbagliato in questo modo di pensare? Il problema è che non tiene conto del fatto che Dio ha degli scopi per noi nel nostro stesso lavoro. Il nostro impiego non è solo un mezzo per raggiungere un fine, ma uno dei modi principali in cui Dio ci fa maturare come cristiani e porta gloria a se stesso.
Cosa c’è di male nel lavorare in attesa del fine settimana?
Dipende da cosa si intende. Se si intende che una delle motivazioni principali è lavorare per provvedere alla propria famiglia, sostenere la propria chiesa, dare ai bisognosi e limitare il proprio tempo al lavoro in modo da poter passare del tempo con la famiglia, allora non c’è nulla di male. Dio ci dà la libertà di avere molteplici motivazioni che ci spingono a lavorare. E va bene se le procedure quotidiane del tuo lavoro non sono tra le più appaganti: puoi comunque glorificare Dio lavorando come per Lui, facendo un lavoro che sia buono, che serva il tuo capo e i tuoi clienti e che provveda ai bisogni degli altri.
Tuttavia, se con “lavorare in attesa del fine settimana” intendi dire che mi trascino per tutta la settimana o che non mi interessa davvero il mio lavoro, che è semplicemente un mezzo per fare “le cose veramente importanti”, allora vorremmo stimolarti a considerare gli obiettivi che Dio ha per te riguardo al tuo lavoro. Uno dei temi chiave di The Gospel at Work è che “la persona per cui lavori è più importante del lavoro che fai”. Dio non sta creando compartimenti stagni nella tua vita, da un lato il tran-tran delle 9:00-18:00 e dall’altro le “cose importanti” dei fine settimana.
Martyn Lloyd-Jones una volta ha osservato: “Per me l’attività di predicazione è la vocazione più elevata, più grandiosa e più piena di grazia a cui si possa mai essere chiamati”. Lloyd-Jones ha sbagliato a innalzare una vocazione al di sopra delle altre?
La predicazione è una vocazione straordinaria e meravigliosa. Preghiamo e speriamo che molti predichino a tempo pieno e che diventino missionari e professori di seminario. Ho sentito altri esprimere questo stesso pensiero [di Lloyd-Jones, n.d.t.], e non credo che stiano facendo dichiarazioni teologiche, quanto piuttosto personali. Per esempio, per Lloyd-Jones penso che la predicazione fosse la vocazione più elevata, più grandiosa e più piena di grazia che potesse intraprendere. Qualsiasi altra cosa sarebbe stata “minore” per lui. Questo però è vero per tutti? No, non può esserlo.
L’idea espressa in questa citazione è un’idea con cui ho lottato nel corso degli anni, tanto che abbiamo scritto un capitolo di The Gospel at Work che affronta specificamente la domanda: “Il ministero a tempo pieno ha più valore del mio lavoro?”. Come ci poniamo di fronte a questa domanda? Riconoscendo che il Re impiega (chiama) persone diverse per ruoli diversi.
Non dobbiamo essere tutti pastori, e nemmeno tutti agenti di polizia. Quindi, come viene determinato tutto questo? Il Re ci impiega come meglio crede. Ci mette dove serviamo meglio ai suoi scopi. Alcuni li impiega come pastori e missionari, altri come insegnanti e uomini d’affari.
In definitiva, sta a Lui decidere. Si tratta di affidare personalmente al Re la tua vita e di lavorare con gli altri sfruttando le opportunità, per comprendere dove ti sta incaricando di lavorare fedelmente per lui.
Come possono i pastori entrare meglio in empatia con i loro fratelli e incoraggiarli nel loro lavoro?
Ho parlato spesso con persone che, sul posto di lavoro, si sentono scoraggiate. Chiaramente, non tutto lo scoraggiamento può essere risolto da un pastore. Lo scopo di The Gospel at Work è quello di aiutare le persone iniziando dal loro cuore, dai loro obiettivi e dalle loro aspettative.
Comunque, il fatto che un pastore non possa fare tutto non significa che non possa fare nulla. Ho scritto un articolo più lungo su come i pastori possono incoraggiare le loro congregazioni, ma qui mi limiterò a riportare tre idee:
- Incoraggiate i lavoratori preoccupandovi della loro vita quotidiana. Fatelo pregando per loro pubblicamente, facendovi raccontare come applicano il vangelo ad alcune delle sfide che devono affrontare e incoraggiandoli proattivamente, soprattutto il lunedì!
- Date ai lavoratori una visione appropriata di come possono “lavorare alla vite” nelle loro famiglie, nel loro posto di lavoro e nella chiesa. Ciò comporta innanzitutto l’applicazione del vangelo e di tutto il consiglio di Dio a tutta la loro vita. Lavorate molto sull’applicazione e mostrate come il vangelo penetra in ogni ambito della loro vita.
- Sfruttate le abilità professionali dei lavoratori. La maggior parte delle persone che conosco sul posto di lavoro vorrebbe usare la propria abilità, creatività, competenza ed esperienza per servire la chiesa. Tuttavia, la maggior parte di loro è frustrata perché raramente qualcuno glielo chiede. Un modo per incoraggiare le persone, quindi, è invitarle ad aiutare voi e la chiesa.
Articolo apparso originariamente in lingua inglese su The Gospel Coalition (USA)