Uno dei motivi per cui fatichiamo a trovare la felicità è che non siamo sicuri di cosa sia.
Immaginate due persone in una sera d’estate. La prima è seduta in giardino, che cerca di finire un cruciverba prima che il sole tramonti, immersa nei suoi pensieri e con i nipotini che giocano nel patio alle sue spalle. La seconda è appena saltata da un aereo e sta precipitando verso terra a velocità estrema, meravigliandosi del panorama sotto di lei e gridando di gioia. Quale persona vi sembra più felice?
Dipende da cosa si intende per felicità. Se la si associa a parole come divertimento, risate, euforia, baldoria, esuberanza, eccitazione e brivido, allora il paracadutista sembra più felice. Se invece si pensa alla felicità come a contentezza, serenità, soddisfazione, pace, armonia, riposo e beatitudine, si propenderà per la nonna appassionata di parole crociate.
Il punto non è che le parole crociate rendano più felici del paracadutismo o viceversa. Il punto è che usiamo la parola “felicità” in moltissimi modi, alcuni dei quali sorprendentemente diversi (e persino inconciliabili) tra loro. Per esempio, una vita trascorsa a inseguire euforia ed eccitazione sarà diversa da una vita trascorsa a ricercare prosperità e appagamento. Mettiamola così: è la differenza tra un film di Tom Cruise degli anni ’80 (Top Gun) e un film di Tom Hanks degli anni ’90 (Forrest Gump).
Usiamo la parola felicità in moltissimi modi, alcuni dei quali sorprendentemente diversi (e persino inconciliabili) tra loro.
Il tipo di felicità che cerchiamo ci condiziona in continuazione. Nei compromessi quotidiani tra tempo e denaro, nell’esame di coscienza di un uomo sposato e annoiato la cui collega più giovane mostra interesse per lui, oppure nell’ordinaria pianificazione di spese e risparmi, acquisti dilazionati e pagamenti posticipati; nella scelta tra accettare un lavoro più stimolante o avere più tempo per i figli, e nella quantità di tempo che passiamo davanti a uno schermo – in tutte queste situazioni, ci si presenta la questione del tipo di felicità che stiamo cercando. Tutti noi ne abbiamo di simili ogni giorno, per quanto possano sembrare banali: Devo restare o andare? È il momento di costruire o di demolire?
La felicità può avere molti gusti. La Bibbia ebraica, ad esempio, presenta circa 20 parole diverse per indicare la felicità, mentre il Nuovo Testamento greco ne ha una quindicina. L’inglese, una lingua ricca, ne ha circa 50. Certo, molte di queste parole sono così simili da essere quasi indistinguibili (sapreste dire la differenza tra contentezza e letizia? Io no!), ma tutte hanno anche delle sfumature specifiche sorprendenti: sappiamo che c’è una netta differenza, per esempio, tra essere beati ed essere fortunati, o tra fare baldoria e essere floridi, anche se è difficile descriverla.
Può quindi essere utile raggruppare queste parole, per cercare di identificare i principali “gusti” o le principali “sfumature” di felicità di cui le persone parlano. (Per ovvie ragioni, lo faremo a partire dall’inglese, ma tutte le lingue che conosco hanno equivalenti di ciascuna di esse). Identificare cosa intendiamo quando parliamo di felicità può essere utile, sia per identificare ciò che siamo (o non siamo) chiamati a ricercare, sia per pensare alle abitudini pratiche, alle convinzioni e alle esperienze che rendono più facile tale ricerca.
I sette gusti della felicità
1. Felicità sperimentata
Questo tipo di felicità viene spesso rappresentata con parole come “gioia”, “delizia”, “piacere”, “contentezza” o “godimento”. Si tratta probabilmente del senso di base della parola, per la maggior parte delle persone che leggono questo articolo.
Certo, molti cristiani insisteranno sulla necessità di distinguere nettamente la gioia (profonda, seria, duratura) dalla felicità (leggera, banale, fugace), ma si tratta di una distinzione relativamente recente e, a mio avviso, poco utile. Essa non sopravvive al contatto con la Scrittura, né con le altre lingue europee: gli inglesi dicono “Happy birthday”, i francesi “Joyeux anniversaire”, gli spagnoli “Feliz cumpleaños” e i greci “Charoúmena genéthlia” (chara è la parola tradotta con “gioia” nel Nuovo Testamento greco).
Felicità, gioia e piacere possono essere usati in modo interscambiabile: essere felici significa gioire e, nel linguaggio del salmista, avere “gioie a sazietà” significa sperimentare “delizie in eterno” (Sal 16:11). Non c’è quindi bisogno di credere che la felicità sia qualcosa di superficiale o che la vera “gioia” sia così profonda da essere invisibile. Come disse una volta un mio amico, la gioia deve raggiungere il volto.
2. Felicità espressa
Il secondo gusto o tipo di felicità consiste in ciò che accade quando si manifesta il primo tipo. Quando le persone mettono in mostra la loro gioia, il loro diletto, il loro piacere e la loro contentezza, usiamo termini più espressivi, come “gaiezza”, “letizia”, “giocondità”, “sollazzo”, “esultanza”, “festosità”, “giubilo”, “fare baldoria”, “rallegrarsi”, “divertimento” o “ilarità”.
In questo senso, la differenza tra il primo e il secondo gusto è tra il provare un’emozione e il mostrarla: la differenza tra tristezza e lamento, apprezzamento e lode. Il primo è l’esperienza di qualcosa, mentre il secondo è la sua espressione udibile, visibile e tangibile. Il secondo spesso segue naturalmente il primo, ma non sempre. A volte, abbiamo bisogno di essere incoraggiati a agire sulla base delle nostre emozioni, ed è per questo che le Scritture ebraiche esortano regolarmente le persone a festeggiare, a fare baldoria, a essere allegri, a esultare e a fare un rumore gioioso (Sal 64:10; 68:4; 95:1; 96:12; 98:4; 100:2; 149:5; Qo 9:7). Fatemi sentire gioia e allegria! Trasformate i vostri digiuni in feste! Dio vi faccia riposare allegri, signore e signori! (Nell’originale, una citazione di un famoso canto natalizio, N.d.T.)
3. Felicità come estasi
Abbiamo già accennato al terzo gusto di felicità: un’ondata di endorfine intensa, inebriante, travolgente ma di breve durata, che si verifica in risposta a stimoli fisici e che potremmo descrivere con parole come “eccitazione”, “brivido”, “impeto”, “sballo”, “euforia”, “estasi” ed “esaltazione”. A differenza dei primi due tipi di felicità, che sono inequivocabilmente positivi, questo è ambiguo dal punto di vista morale.
L’euforia può derivare da cose buone (l’esercizio fisico, imprese titaniche, o il sesso all’interno del matrimonio) che producono buoni risultati (forma fisica, diligenza, intimità). Può, però, derivare da cose cattive (abuso di sostanze, promiscuità sessuale, droghe illegali) con conseguenze dannose (dipendenza, rottura delle relazioni, perdita del controllo, depressione, catastrofi finanziarie). Oppure, l’euforia può derivare da cose né moralmente buone né moralmente cattive (concerti, montagne russe, il bungee jumping) che possono essere ricevute in qualità di doni senza diventare divinità.
4. La felicità come fortuna
Il modo migliore per presentare il quarto e il quinto gusto di felicità è con l’aiuto di una coppia di fratelli che incontriamo nella Genesi. I loro nomi, Gad e Ascer, riflettono due ulteriori concezioni della felicità, che probabilmente erano le due concezioni predominanti negli anni prima di Cristo:
Lea, vedendo che aveva cessato d’aver figli, prese la sua serva Zilpa e la diede a Giacobbe per moglie. Zilpa, serva di Lea, partorì un figlio a Giacobbe. E Lea disse: «Che fortuna!» E lo chiamò Gad. Poi Zilpa, serva di Lea, partorì a Giacobbe un secondo figlio. Lea disse: «Sono felice! perché le fanciulle mi chiameranno beata». Perciò lo chiamò Ascer. (Genesi 30:9-13, corsivi aggiunti)
Il quarto gusto, incarnato da Gad, significa “buona sorte”, “fortuna” o “caso”. Un equivalente moderno sarebbe il nome dell’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan, o nomi come Felix e Felicity, che in latino significano “felice” o “fortunato”. Ovviamente, nell’Occidente moderno si tende a distinguere tra “essere felici” ed “essere fortunati”. Ma per molte persone nella storia, soprattutto nell’antico mondo pagano, queste due condizioni erano indistinguibili.
Questa prospettiva sulla felicità è alla base di diversi nomi biblici, come Gad (ebraico), Felix (latino), Tichico ed Eutico (greco), e della stessa parola inglese happiness. Hap originariamente significava “fortuna”, ecco perché hapless significa “sfortunato”, perhaps significa “con fortuna” e happenstance significa “ciò che, caso vuole, è capitato”.
5. Felicità come benessere
“Ascer”, al contrario, significa “felice” nel senso di “fiorente”, “prospero” o “benessere”. Si pensi al primo versetto del Salterio: “Beato [Asher] l’uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi” (Sal 1:1). E che aspetto ha l’essere asher? Egli sarà “come un albero piantato vicino a ruscelli, il quale dà il suo frutto nella sua stagione e il cui fogliame non appassisce; e tutto quello che fa prospererà” (v. 3).
Non si tratta della descrizione di uno stato emotivo o di uno stato d’animo. È una descrizione olistica del prosperare nella vita nel suo complesso: fiorire, prosperare, sperimentare benessere e vitalità, vivere la vita come deve essere vissuta. Dei sette tipi di felicità, questo è il più vicino alla famosa discussione di Aristotele sull’eudaimonia nell’Etica Nicomachea.
6. Felicità come appagamento
Il sesto gusto di felicità è il senso di “appagamento”, “soddisfazione”, “serenità”, “beatitudine”, “pace” e “riposo” che si prova quando si ha tutto ciò di cui si ha bisogno. I propri desideri sono stati soddisfatti. Non si desidera o non si cerca ciò che non si ha, ma si riposa serenamente in ciò che si ha.
Anche in questo caso, il Salterio ci offre una bella immagine biblica: “Non aspiro a cose troppo grandi e troppo alte per me. In verità l’anima mia è calma e tranquilla. Come un bimbo divezzato sul seno di sua madre, così è tranquilla in me l’anima mia” (Sal 131:1-2). Quando un bambino piccolo è in fase di allattamento, passa gran parte del tempo ad agitarsi, a piangere e a frugare, cercando di trovare cibo a sufficienza. Ma quando viene svezzato e passa ai cibi solidi, il suo bisogno di nutrirsi continuamente si riduce. Può stare tranquillo e contento tra le braccia della mamma.
Questo, dice Davide, è ciò che si prova quando si smette di preoccuparsi di cose al di sopra delle proprie possibilità e si riposa semplicemente tra le braccia di Dio. L’esperienza dell’apostolo Paolo è stata simile: “in tutto e per tutto ho imparato a essere saziato” (Fl 4:12).
7. Felicità come pienezza
Possiamo sperimentare la felicità come “pienezza”, “ricchezza”, “interezza”, “significatività”, “gratificazione” e “unità”. Questo tipo è il più difficile da descrivere, perché in questa vita è qualcosa che intravediamo piuttosto che afferrare veramente, anche se questi scorci sono spesso tra le esperienze più significative della nostra vita.
Vi sarà capitato di sperimentare sprazzi di trascendenza, situazioni in cui sentite di toccare qualcosa di più alto o di più profondo di voi, in cui vi dimenticate di voi stessi per un breve periodo e siete trasportati in qualcosa che va oltre voi stessi. Il filosofo Charles Taylor la descrive come un luogo in cui “la vita è più piena, più ricca, più profonda, più degna di nota, più ammirevole, più ciò che dovrebbe essere”, sia essa caratterizzata da “integrità, generosità, abbandono, o dimenticanza di sé”.
Il modo migliore per spiegarlo è usando metafore relative ai liquidi: l’esperienza di qualcosa che trabocca, rompe gli argini, zampilla, in cui siamo così pieni di qualcos’altro (o di Qualcun altro) che non c’è più spazio per la nostra piccolezza e per il nostro egoismo. Forse è questo che aveva in mente l’apostolo quando chiedeva che i suoi amici fossero “ripieni di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3:19).
Non tutte le felicità sono state create uguali
I sette gusti di felicità (chiamiamoli delizia, allegria, estasi, fortuna, prosperità, appagamento e pienezza) sono ovviamente collegati tra loro. Non è il caso di fare troppe distinzioni, perché molti di essi si sovrappongono e si presentano contemporaneamente. Ma capire cosa intendiamo per felicità ci aiuterà, in ultima analisi, a cercarla meglio.
Quando prendiamo una decisione, ci chiediamo implicitamente quale delle due alternative ci renderà più felici: Espressione di sé o sottomissione? Individualità senza vincoli o una comunità unita? Più vacanze o più figli? La stima di molti estranei o quella di pochi amici? Esperienze a breve termine o relazioni a lungo termine? Distrazione o trascendenza? (Gli esempi biblici abbondano. Una ciotola di stufato o un diritto di primogenitura? Essere indipendenti o essere soccorsi? La conoscenza del bene e del male o la vita?). La risposta è che entrambe le cose possono renderci felici, ma in modi diversi, e con il tempo daremo sempre piú valore al secondo rispetto al primo.
Non solo, ma tutto questo presenta un’affascinante componente generazionale, come ha recentemente dimostrato la psicologa Jean Twenge. Da adolescenti, i millennial (nati tra il 1980 e il 1994), individualisti e amanti della libertà, erano più felici dei loro omologhi della Generazione X (1965-79), che alla stessa età erano più legati alla famiglia, alla religione e alla comunità. I giovani millennial americani avevano più reddito disponibile, più possibilità di viaggiare e più libertà di fare esperienze rispetto a qualsiasi altra generazione precedente, e ne erano ben contenti. Tuttavia, con il passaggio all’età adulta, i millennial sono diventati meno felici dei loro predecessori, poiché i benefici dell’individualismo e della libertà hanno iniziato a essere eclissati dai loro lati negativi, in particolare l’isolamento, la perdita del senso di comunità, la solitudine e (spesso) la depressione.
I benefici dell’individualismo e della libertà hanno iniziato a essere eclissati dai loro lati negativi, in particolare l’isolamento, la perdita del senso di comunità, la solitudine e (spesso) la depressione.
Un’implicazione affascinante di questa ricerca è che non tutte le felicità sono state create uguali. A lungo termine, apprezziamo di più i gusti cinque e sei rispetto ai gusti tre e quattro e, probabilmente (anche se non ho tempo di spiegarlo ora) il gusto sette più di tutti gli altri gusti. E questo è utile da sapere in un mondo in cui dobbiamo continuamente scegliere tra ognuno di loro.
Prima di cercare la felicità – per non parlare di codificarne la ricerca come diritto inalienabile – è bene capire quale tipo di felicità vale la pena perseguire.
Articolo apparso originariamente in lingua inglese su The Gospel Coalition.