In principio, Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota (tohu wa’bohu), le tenebre coprivano la faccia degli abissi e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque. E Dio separò la luce dalle tenebre, il giorno dalla notte, le acque di sopra dalle acque di sotto, il mare dalla terra. Distinse il sole dalla luna, i pesci dagli uccelli, il bestiame dagli animali striscianti e selvatici. Quando diede vita agli esseri umani che portavano la sua immagine, egli fece una distinzione tra maschi e femmine. E distinse i giorni del lavoro da quelli del riposo, Caino da Abele, il santo dal comune. L’opera di creazione di Dio consiste, tra le altre cose, in una serie di distinzioni che conferiscono ordine a ciò che è informe (tohu) e vita a ciò che è vuoto (bohu). La preghiera ebraica Havdalah, che conclude il sabato, recita così: “Benedetto sei tu, Signore nostro Dio, Re dell’universo, che distingui tra sacro e profano, tra luce e tenebre, tra Israele e le altre nazioni, tra il settimo giorno e i sei giorni di lavoro”
La complementarietà è inscritta nella creazione
La complementarietà (“una relazione o una situazione in cui due o più cose diverse migliorano o valorizzano le qualità le une delle altre”) è inscritta nella creazione. C’è un adattamento, un miglioramento reciproco, una meravigliosa differenza, al cuore di ciò che Dio ha creato. Il cosmo è costituito da coppie complementari di ogni tipo, di cui il maschio e la femmina sono un esempio paradigmatico: ecco perché la complementarità cosmologica si riflette in alcune lingue umane (der Tag/die Nacht, le ciel/la terre, el sol/la luna, e così via). La prospettiva ebraico-cristiana della complementarità sessuale, in quanto tale, riflette la nostra visione della complementarità cosmologica e, in ultima analisi, la meravigliosa differenza tra Creatore e creazione, Dio e Israele, Cristo e la chiesa, l’Agnello e la Sposa.
Non identico, non completamente diverso
La complementarità è quindi nettamente diversa da altri due modi di pensare le relazioni tra le cose create.
Da un lato, ebrei e cristiani non credono che maschio e femmina siano identici. Non siamo esattamente uguali, così come non lo sono il cielo e la terra, o il giorno e la notte. Genesi 1 è una storia dell’ordine e della vita risultanti dalla separazione, dalla distinzione, dal dualismo piuttosto che dall’unicità. Quando le distinzioni vengono meno, non c’è vita. La vita scaturisce dalla differenza, una meravigliosa differenza: quando il cielo interagisce con la terra, sotto forma di sole, pioggia e suolo, si ottengono piante e animali, mentre coppie identiche sono sterili come una caverna (terra sopra e terra sotto) o Giove (cielo sopra e cielo sotto). Considerate le connessioni tra complementarità sessuale e cosmologica, non sorprende che l’abolizione della distinzione tra cielo e terra sia collegata all’abolizione della distinzione tra maschio e femmina.
Non sorprende che l’abolizione della distinzione tra cielo e terra sia collegata all’abolizione della distinzione tra maschio e femmina
Un esempio comico è fornito dal contrasto tra il Gesù ebraico, riflesso nei quattro Vangeli, e il Gesù gnostico che troviamo nel Vangelo di Tommaso. Il vero Gesù è chiaro nella sua risposta alla domanda dei farisei sul divorzio: “Non avete letto che colui che li ha creati fin dal principio li ha fatti maschio e femmina?”. (Mt 19:4). Il Gesù gnostico suona tanto elaborato e incoerente nel suo offuscare le distinzioni quanto le sue controparti moderne: “Quando farete in modo che due siano uno, e farete sì che l’interno sia come l’esterno e l’esterno come l’interno, e l’alto come il basso, e quando farete del maschio e della femmina una cosa sola, cosicché il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina, e quando metterete un occhio al posto di un occhio e una mano al posto di una mano e un piede al posto di un piede, un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete [nel regno].” (loghion 22). Senza distinzioni, la creazione collassa e si trasforma in un pasticcio. La complementarietà non è identicità.
D’altra parte, gli ebrei e i cristiani nemmeno credono nell’alterità del maschio e della femmina, come se fossimo esseri completamente diversi. Non siamo del tutto uguali, ma nemmeno del tutto diversi, e dobbiamo fare attenzione, nel tentativo di assicurarci che le distinzioni di sesso non vengano cancellate, a non esagerarle. Uomini e donne portano l’immagine di Dio insieme, ed è la nostra umanità, molto più del nostro sesso, a definire la nostra identità. Siamo prima di tutto esseri umani, poi maschi o femmine, e in Cristo le divisioni che esistono all’interno della nostra comune umanità crollano: gli ebrei si riconciliano con i gentili, i padroni servono gli schiavi e gli uomini e le donne sono uniti in Cristo e resi eredi del dono della vita.
Per diversi filosofi, sia antichi che moderni, le differenze tra maschio e femmina non esprimono complementarietà e armonia, ma alterità e conflitto. Uomini e donne sono destinati a lottare l’uno con l’altro per il potere, non solo a livello individuale, ma all’interno delle civiltà nel loro complesso: il pensiero occidentale è maschile, lineare, direzionale e ordinato, e implica l’imposizione del potere sulla creazione, mentre il pensiero orientale è femminile, curvo, ciclico e caotico, e implica la resa alla creazione. Tutto questo potrebbe suonare familiare ad alcuni di noi, apparirci persino cristiano. Ma se guardiamo più da vicino possiamo vedere che non si tratta di complementarità ma di alterità: differenza assoluta, o contrapposizione. Il confronto è inquadrato in termini di conflitto, trionfo, competizione, opposizione, rivalità, persino violenza. Non c’è pace tra cielo e terra, né tra maschio e femmina. Non c’è amore.
Nella concezione cristiana della complementarietà, c’è unione e distinzione, uguaglianza e differenza, molti e uno
Nella concezione pagana dell’identità, c’è unione senza distinzione; nella concezione deista dell’alterità, c’è distinzione senza unione. Ma nella concezione cristiana della complementarietà, c’è unione e distinzione, uguaglianza e differenza, molti e uno. Nel cristianesimo, l’uomo e la donna portano l’immagine di Dio insieme, senza che né l’uomo né la donna possano esprimerla pienamente senza l’altro. E le chiare distinzioni che esistono all’interno della creazione sono in ultima analisi riconciliate nella vita del Dio Trino (in cui troviamo identità e alterità, uguaglianza e diversità, uno e tre) e nell’incarnazione (in cui il cielo incontra la terra e la Parola diventa carne).
Prima che il mondo fosse creato, non esistevano lotte e violenze primordiali, ma pace e gioia pericoretiche all’interno della Trinità. La nostra speranza futura è quella in cui il cielo e la terra si uniscono, con la gloria dell’uno che trasforma l’altra (ecco perché la maggior parte delle coppie di Genesi 1 sono trascese in Apocalisse 21: non c’è la luna, non c’è bisogno del sole, non c’è mare, non c’è tenebra, non c’è rapporto sessuale, e il cielo e la terra sono splendidamente sposati). Il destino finale del cosmo, e il matrimonio di Cristo e della chiesa, non riflettono né il conflitto né il collasso, ma la complementarietà, poiché la gloria dell’uno permea e alimenta l’altro. Beati coloro che sono invitati alla cena di nozze dell’Agnello!
Complementarietà e creazione
Sulla base di questa cornice teologica, non dovrebbe sorprendere che uomini e donne siano straordinariamente diversi in vari modi, che trascendono le variazioni culturali. Queste differenze non solo non scompaiono nelle società cosiddette sessualmente neutrali, ma ci sono prove che indicano che alcune di queste differenze in realtà aumentano, quando le persone sono libere di fare ciò che vogliono. (Per citare un esempio ampiamente riportato, le differenze in alcune abilità mentale tra uomini e donne sono maggiori nei Paesi con una maggiore parità sessuale). Le curve gaussiane di uomini e donne sono centrate in punti diversi, e non solo per i tratti fisici più ovvi (altezza, forza, capelli e così via), ma anche per i tratti ormonali, psicologici e interpersonali.
Gli uomini sono generalmente più aggressivi, competitivi, impavidi, propensi a correre rischi, promiscui e inclini alla violenza, e il testosterone è associato a livelli più elevati di sicurezza di sé, desiderio sessuale e affermazione di status. Le donne sono in media più inclini alla nevrosi e alla cordialità. Di conseguenza, gli uomini sono generalmente raggruppati agli estremi superiori e inferiori della società: gli uomini non solo hanno maggiori probabilità di essere molto ricchi o molto potenti (il che suscita ogni sorta di dibattito pubblico), ma anche molte più probabilità di essere criminali, assassini, senzatetto, esclusi o imprigionati (il che non suscita alcun dibattito).
I gruppi composti da maschi sono più caratterizzati da scontri, conflitti, strutture di potere e battutine, mentre i gruppi di femmine sono tipicamente più piccoli, più indiretti nel confronto, con una struttura maggiormente egualitaria, più abili dal punto di vista verbale e più orientati alle persone piuttosto che alle cose. Le tendenze di genere possono essere notate prima che i bambini siano particolarmente consapevoli del loro sesso (per fare un esempio tragico, in 40 dei 43 casi di colpi di arma da fuoco gravi sparati da bambini nel 2015 i piccoli coinvolti erano maschi), e persino nei nostri parenti animali più prossimi (la preferenza maschile per i camion rispetto alle bambole si estende alle scimmie rhesus e vervet).
Julia Turner, redattrice di Slate, ha affermato di recente che la mascolinità dei suoi due figli gemelli ha rappresentato una sfida significativa al suo impegno nei confronti del genere come costrutto sociale, proponendo l’affascinante osservazione che, nonostante la sua bona fides egualitarista, “c’è un là, là” (letteralmente, “there’s a there there, N.d.T.). A questo, l’esperta di etica Christina Hoff Sommers ha risposto maliziosamente su The Federalist: “In effetti c’è. E ci vuole una laurea in materie umanistiche per non vederlo”.
Non parlo di tutto questo per avvalorare una o tutte queste differenze, come se la scienza le rendesse in qualche modo virtuose, né tantomeno per giustificare la propensione maschile alla promiscuità e alla violenza. Ne parlo per quattro motivi:
- La complementarità sembra essere radicata in noi come esseri umani, anche dal punto di vista della ricerca scientifica e sociologica laica più diffusa. La stragrande maggioranza delle società umane lo sapeva in modo intuitivo, ma in una cultura come la nostra, in cui la maggior parte di noi non ha mai combattuto per la patria, non è mai morta di parto, non è mai scesa in miniera o non ha mai colonizzato una frontiera, questo è stato dimenticato. I fatti, tuttavia, sono incontestabili.
- C’è un’interessante corrispondenza tra molti di questi tratti e il tipo di cose che ci aspetteremmo di trovare se Genesi 1-4 fosse vera, e se all’uomo (adamah = “terra”) fosse stato affidato il compito di sorvegliare il giardino contro gli attacchi, e la donna (havah = “vita”) fosse stata identificata come la madre di tutti i viventi.
- A livello pastorale, può essere rassicurante sentirsi dire che non stiamo immaginando quando osserviamo che uomini e donne sono generalmente predisposti a diversi tipi di peccati o debolezze (#MeToo, #ToxicMasculinity, #HeForShe), e che dovremmo discepolare le persone di conseguenza.
- Inoltre, questi dati gettano una luce interessante sulle differenze biologiche (molto ovvie) tra uomini e donne e sulla loro significatività. Immaginate un alieno che visita la Terra e scopre che un sesso è più alto, più forte e più peloso dell’altro, con organi sessuali esterni e rivolti verso l’esterno, mentre gli organi sessuali del partner più piccolo sono interni e servono per i rapporti sessuali e le gravidanze. Immaginate poi che scoprano che, in generale, uno dei due è più bravo a creare relazioni, a tenere insieme piccoli gruppi e a lavorare con le persone, mentre l’altro è più adatto all’azione esterna, all’assunzione di rischi e al lavoro con le cose. Infine, immaginiamo che gli vengano presentate le categorie bibliche per descrivere i sessi: torri e città, guerrieri e giardini, sacerdoti e templi, lo sposo sporco di sangue e la sposa pura e immacolata. Come pensate li assocerebbe il nostro alieno?
Complementarietà e famiglia
I cristiani sono chiamati a esprimere la complementarità tra maschio e femmina in questo tempo. Non si tratta solo di obbedire a specifiche istruzioni bibliche – anche se questo dovrebbe essere sufficiente! – ma di mettere in mostra questa meravigliosa differenza per un mondo che ha bisogno di vederla e che raramente la vede. Così, quando il mondo si chiede: “Cosa intendete quando dite che Dio non è né distante da noi (come dice l’Islam) né identificabile con noi (come dice il paganesimo)?”, la relazione tra uomo e donna è la nostra illustrazione di riferimento. Il contesto principale in cui essa è visibile è la famiglia.
I mariti e le mogli dimostrando come sono nella pratica l’amore, la fedeltà, la differenza, l’unione, la leadership sacrificale e il servizio reciproco
La forma più evidente è il matrimonio: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne”. Questo mistero è profondo, e lo dico in riferimento a Cristo e alla chiesa” (Ef 5:31-32). Nel matrimonio, i mariti e le mogli interpretano le parti di Cristo e della chiesa, dimostrando come sono nella pratica l’amore, la fedeltà, la differenza, l’unione, la leadership sacrificale e il servizio reciproco.
Il marito deve amare la moglie come un capo ama il suo corpo e come Cristo ama la chiesa: dando se stesso per lei, santificandola con l’acqua della parola e presentandola in tutto splendore. (È significativo che qui Paolo immagini il marito impegnato in compiti tradizionalmente femminili come lavare, pulire e stirare: Paolo sta consapevolmente e deliberatamente sovvertendo la rappresentazione greco-romana del capeggiamento dei maschi sulle femmine). La moglie, di conseguenza, deve sottomettersi e rispettare il marito come la chiesa si sottomette a Cristo.
La sottomissione è a senso unico o i mariti e le mogli sono chiamati a sottomettersi reciprocamente? Paolo ha appena descritto la chiesa piena di Spirito come un luogo in cui ci si sottomette “gli uni agli altri nel timore di Cristo” (5:21); poi scompone questa descrizione in termini adeguati a una famiglia antica standard, applicandola a mariti e mogli, padri e figli, schiavi e padroni. La reciprocità della sottomissione (5:21) prevale sulle differenze nel modo in cui la sottomissione viene espressa (5:22-6,9)? Oppure Paolo intende dire che solo le mogli, i figli e gli schiavi devono sottomettersi (rispettivamente ai mariti, ai padri e ai padroni)?
La risposta, con ogni probabilità, non è nessuna delle due: mogli e mariti sono chiamati a sottomettersi l’uno all’altro (così come genitori e figli, padroni e schiavi) ma non in modo identico. Cristo e la chiesa si servono a vicenda, ma non nello stesso modo: Cristo ci serve morendo e risorgendo per salvarci; noi lo serviamo rispondendo con fede alla sua guida. (Entrambi ci offriamo in sacrificio per l’altro, naturalmente, ma in modi molto diversi; se dovessimo confondere le due cose, allora l’intero Vangelo si disferebbe. N. T. Wright lo dice bene:
Paolo presuppone, come la maggior parte delle culture, che ci siano differenze significative tra uomini e donne, differenze che vanno ben oltre la semplice funzione biologica e riproduttiva. Le loro relazioni e i loro ruoli devono quindi essere reciprocamente complementari, piuttosto che identici. L’uguaglianza nel diritto di voto, nelle opportunità di lavoro e nella retribuzione (che in molti luoghi non è ancora una realtà) non deve essere considerata come un’identità. E, all’interno del matrimonio, la linea guida è chiara. Il marito deve prendere l’iniziativa, anche se deve farlo tenendo conto del modello auto-sacrificale che il Messia ha fornito. Non appena il “prendere l’iniziativa” diventa prepotente o arrogante, l’intera struttura crolla.
Sbaglieremmo, però, a pensare che la complementarietà sia limitata al matrimonio. Se così fosse, chiunque sia single, in lutto, divorziato o abbandonato non sarebbe in grado di riflettere pienamente la femminilità o la mascolinità. (Il fatto che un numero significativo di queste persone nelle nostre chiese si senta così è un’indicazione che abbiamo un po’ di lavoro da fare). Nelle Scritture, tuttavia, essere maschio oppure femmina ha ripercussioni su ogni cosa: le madri sono diverse dai padri, i fratelli sono diversi dalle sorelle, le nonne sono diverse dai nonni, e così via. Ho l’obbligo di proteggere mia madre e le mie sorelle in un modo che non si applica anche a mio padre o a mio fratello. Tuttavia, questo non implica che io abbia un’autorità su di loro, che io prenda decisioni per loro o che loro non possano avere autorità su di me. (Mia sorella minore dirige un reparto di pronto soccorso in un ospedale di Londra. Se i nostri figli hanno un incidente, faccio tutto quello che mi dice, senza fare domande).
Anche le istruzioni di Paolo a Timoteo presuppongono una differenziazione sessuale nelle interazioni con le persone della famiglia di Dio: “Non rimproverare un uomo anziano, ma incoraggialo come un padre; i giovani come fratelli; le donne anziane come madri; le giovani come sorelle, in tutta purezza” (1 Tm 5:1-2). Quindi, con i miei parenti, nella mia famiglia di chiesa, sul posto di lavoro e persino sui social media, devo interagire con le donne più anziane specificamente come madri e con gli uomini più anziani specificamente come padri, non come unità neutre dal punto di vista del genere o lavoratori anonimi senza sesso. (Naturalmente, questo principio si applicherà in modo diverso nei vari contesti; in Occidente sarei felice di avere mia sorella come manager, figura autorevole o addirittura capo di Stato, mentre nello Yemen potrei essere cauto nel mangiare in pubblico con lei). Similmente, il modo in cui interagisco con gli uomini single che vivono con la nostra famiglia è molto diverso dal modo in cui interagisco con le donne single. E, in caso fosse necessario dirlo, se limitiamo la portata di “tratta le donne più giovani come sorelle” a “assicurati di non fare sesso con loro”, perdiamo totalmente ciò che intendeva Paolo.
La complementarità e la Chiesa
Quando passiamo a considerare la chiesa, è straordinariamente facile dimenticare questo quadro teologico e antropologico più ampio, e perdersi nelle zizzanie esegetiche riguardo al significato di hupotassō o authenteō o altro. Tutti noi, alla fine, dobbiamo giungere a delle conclusioni sul significato di testi specifici e sul modo in cui li applicheremo nella chiesa locale. Ma l’argomentazione a favore dell’autorità maschile degli anziani non parte da qui. Essa parte dalla duplice constatazione (a) che gli anziani sono fondamentalmente guardiani della chiesa e (b) che in ogni fase della storia della redenzione (dal giardino al tabernacolo, dal tempio al ministero di Gesù, alla chiesa neotestamentaria, fino alla fine dei tempi) l’individuo o gli individui incaricati di custodire il popolo di Dio e di proteggerlo dal male sono stati uomini.
È ampiamente accettato che i termini neotestamentari “anziano”, “pastore” e “sorveglianti” siano in gran parte interscambiabili (At 20:17-38; Tt 1:5-9; 1 Pt 5:1-4), e che ciascuno di essi evochi la responsabilità di servire la chiesa custodendola e proteggendola dai pericoli. Gli anziani, biblicamente parlando, sono dei guardiani. Prendiamo in considerazione ciascuna di queste parole bibliche.
1. Pastore
Pasturare spiritualmente, come anche fisicamente, implica sia la protezione delle pecore deboli o ferite, sia la protezione dell’intero gregge dai nemici che vorrebbero attaccarlo
Il motivo principale per cui esiste un pastore è proteggere le pecore dal pericolo. Certo, le conduce in nuovi pascoli e prepara per loro cibo e acqua, ma la ragione principale per cui si assume un pastore nel mondo antico, piuttosto che lasciare che le pecore vaghino liberamente, è la protezione – protezione da ferite, ladri, dispersione, lupi e altri animali selvatici. Ciò emerge chiaramente dai testi chiave del Nuovo Testamento, in cui i pastori danno la vita per le pecore e vegliano sul gregge di Dio, che egli ha comprato con il proprio sangue; questa lettura si basa anche sull’immaginario dell’Antico Testamento, in cui i pastori, come Davide, sono coloro che uccidono leoni e orsi per difendere il loro gregge, impugnano verghe e bastoni per custodirlo e sono chiamati a proteggere le loro pecore piuttosto che mangiarle. Pasturare spiritualmente, come anche fisicamente, implica sia la protezione delle pecore deboli o ferite, sia la protezione dell’intero gregge dai nemici che vorrebbero attaccarlo.
2. Sorvegliante/Vescovo
La parola “sorvegliante” è una traduzione letterale di episkopos, ed è certamente preferibile a “vescovo”, date le risonanze che ha questa parola, ma evoca comunque immagini di spocchiosi capi-reparto, o comunque un ruolo più manageriale. Nel greco koinè, invece, essa aveva il senso di “guardiano”. Potrebbe essere stato inteso più come lo skopos (= guardiano) di Ezechiele, che è il modo in cui lo legge Giovanni Calvino: gli anziani sono le “fedeli sentinelle” che “vegliano e si prendono cura del gregge, mentre gli altri uomini dormono”. La terminologia è quella che useremmo per un guardiano più che per un capo ufficio, per una sentinella più che per un supervisore. Il ruolo del sorvegliante, naturalmente, era quello di preservare la sana dottrina nella chiesa, e questo è ciò che ha portato alla distinzione tra vescovi e anziani alla fine del primo secolo.
3. Anziano
Lo stesso vale, forse sorprendentemente, per gli anziani. Greg Beale sottolinea che lo scopo degli anziani nel Nuovo Testamento è quello di preservare la chiesa durante la tribolazione escatologica. Il periodo tra la Pentecoste e la fine dei tempi è segnato da inganni, falsi insegnamenti, persecuzioni e sofferenze, e i requisiti degli anziani nelle Lettere pastorali devono essere considerati in questo contesto: la protezione della chiesa affinché non venga distrutta. A questi riferimenti Beale aggiunge non solo Atti 20, come abbiamo visto, ma anche il primo viaggio apostolico di Paolo, in cui lui e Barnaba insegnano ai discepoli che “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (14:22) e poi nominano immediatamente degli anziani in ogni chiesa (14:23) – come se questo (l’anzianato) fosse la soluzione al problema (le tribolazioni). Nella storia della chiesa ci sono state persecuzioni in cui i vescovi/presbiteri/anziani sono morti per conto delle chiese che servivano. La stessa dinamica si verifica oggi, quando le autorità ostili prendono di mira i leader della chiesa piuttosto che le congregazioni – si veda l’esempio dell’Ucraina orientale, dove ad essere arrestati sono gli anziani. (Gregorio Magno, nel VI secolo, commentava così l’affermazione di Paolo secondo cui aspirare all’incarico di sorveglianti era una cosa nobile: “Tuttavia è da notare che questo fu detto in un’epoca in cui chi era posto a capo del popolo era di solito il primo a essere condotto ai tormenti del martirio”). Alle tre D che molti di noi hanno usato per riassumere le responsabilità degli anziani – dottrina, disciplina, direzione – dovremmo forse aggiungerne una quarta: la morte (in inglese “death”, N.d.T.).
Considerare queste tre parole insieme porta a una chiara conclusione: gli anziani sono guardiani. E non appena ce ne accorgiamo, notiamo che, in ogni periodo della storia biblica, coloro che sono incaricati di difendere e proteggere il popolo e/o il santuario di Dio sono uomini piuttosto che donne, padri piuttosto che madri.
- Adamo viene messo nel giardino “perché lo lavorasse e lo custodisse” (Gen 2:15); la stessa coppia di verbi è usata per i leviti (Nm 3:7-8; 18:7). Di conseguenza, quando avviene la caduta, la responsabilità è sua, ed è in Adamo che tutti moriamo, non in Eva.
- I patriarchi, ovviamente, sono tutti uomini.
- I sacerdoti levitici, incaricati di proteggere il santuario e, per estensione, l’intera nazione di Israele, sono tutti uomini, e per di più violenti: passano le loro giornate uccidendo animali e sono stati ordinati per la prima volta al servizio sacerdotale perché hanno avuto sufficiente zelo per Yahweh da uccidere i loro compagni israeliti (Es 32:25-29).
- Questo rimane vero per tutto il periodo del primo tempio, quando c’è un sacerdozio maschile che opera accanto a una monarchia maschile in Giuda (Atalia non viene mai chiamata “regina”, né le viene data alcuna legittimità dallo scrittore, e come tale è l’eccezione che conferma la regola).
- Questo rimane vero per tutto il periodo del secondo tempio, fino ai giorni di Zaccaria e Giovanni Battista.
- Gesù chiama 12 apostoli, tutti uomini, e dà loro la responsabilità di legare e sciogliere, insegnare e governare la chiesa mondiale.
- Le qualifiche dei sorveglianti nella chiesa del Nuovo Testamento, gli anziani-pastori-guardiani incaricati di proteggere la chiesa dai lupi e dai falsi pastori, sono rivolte agli uomini.
- E la Bibbia termina con una città femminile (che comprende l’intero popolo di Dio, di qualunque sesso noi siamo) che viene salvata e finalmente data in sposa a un Salvatore maschio, con le mura della città e le loro fondamenta che portano il nome di apostoli e patriarchi maschi.
Padri e fratelli
Poiché le qualifiche degli anziani fanno parte di un modello biblico molto più ampio, non sorprende che l’aspettativa sia che i sorveglianti siano uomini e che sia loro richiesto di essere “marito di una sola moglie” (1 Tm 3:2). Non si tratta di un requisito sessualmente neutro; la chiesa è una famiglia che dispone, e ha disperatamente bisogno, sia di padri che di madri (ad esempio, 5:1-2), e questa è una forte indicazione del fatto che Paolo vede i sorveglianti come padri. Lo stesso vale per l’obbligo di guidare bene la famiglia e di tenere i figli sottomessi (3:4), così come il requisito di essere in grado di insegnare (3:2), dato che Paolo ha appena impedito alle donne di farlo (2:12; il fatto che ci sia un ampio dibattito su cosa intendesse esattamente non dovrebbe impedirci di vedere l’ovvio collegamento qui). Lo stesso vale per il fatto che Paolo, dopo aver dato le qualifiche per i sorveglianti e i diaconi, dà le qualifiche per le “donne” (3:11); che lo si veda come un riferimento alle donne diacono (come faccio io) o alle mogli dei diaconi (come lo interpretano altri), esso distingue chiaramente tra “sorveglianti”, “diaconi” e “donne/mogli”, rendendo quasi impossibile che Paolo abbia considerato le ultime come un sottoinsieme delle prime. Per questo motivo, anche i commentatori egualitaristi concordano spesso sul fatto che questi requisiti “presentano il sorvegliante come un marito e un padre” (Towner) e che “Paolo si riferisce al vescovo come a un uomo” (Wright). Almeno in questo testo, l’autorità degli anziani non è sessualmente neutrale.
Talvolta si sostiene che i supervisori devono essere uomini in questa particolare chiesa, ma non in altre, perché l’eresia che affligge la chiesa proviene da donne ricche e influenti. A parte il fatto che gli unici falsi insegnanti nominati a Efeso sono uomini (1 Tm 1:20; 2 Tm 2:17), questa argomentazione ignora che lo stesso requisito è applicato agli anziani di un’isola a diverse centinaia di miglia di distanza: “Quando si trovi chi sia irreprensibile, marito di una sola moglie, che abbia figli fedeli, che non siano accusati di dissolutezza né insubordinati” (Tt 1:6). Le qualifiche per l’anzianato fornite da Paolo non sono limitate a una situazione specifica di Efeso: sono praticamente identiche a Creta e, presumibilmente, in ogni altro luogo. Gli anziani, così come Adamo, i sacerdoti levitici, i re d’Israele, i Dodici e tutti coloro che nelle Scritture hanno il compito di proteggere il popolo di Dio dal male, sono uomini.
Madri e sorelle
D’altra parte, c’è un altro modo di raccontare la storia biblica, e anch’esso deve essere sottolineato. Cristo è identificato come il seme di una donna, molto prima di essere indicato come il seme di un uomo (Gen 3:15). Eva, lungi dall’essere inferiore ad Adamo (nella Scrittura la parola ezer, o “aiutante”, è più comunemente applicata a Dio stesso), è in realtà colei la cui fede è associata all’avverarsi della promessa (Gen 4:1, 25). Le donne nel periodo patriarcale ascoltano e parlano con Dio e spesso superano in astuzia i loro mariti sciocchi, i loro figli o entrambi (Sara, Agar, Rebecca, Lia, Rachele). Una schiava è la prima e unica persona nelle Scritture ad assegnare un nome a Dio (Gen 16:13).
Numerose storie di redenzione nella Bibbia iniziano con delle donne – Eva, Agar, Lea, Sifra e Pua, Miriam, la madre di Sansone, Ruth, Anna, Ester, Elisabetta, Maria – mentre Israele è oppresso da uomini stolti o malvagi. Le donne giudicano Israele (Debora) e ottengono vittorie militari (Iael). Le donne salvano i loro mariti (Abigail), i loro figli (Iochebed), la loro città (la donna di Tecoa) e la loro nazione (Ester). Le donne profetizzano (Culda, le figlie di Filippo), compongono salmi e canti che appaiono nelle Scritture (Anna, Maria), spiegano la Parola di Dio agli uomini (Priscilla), ospitano chiese (Cloe), gestiscono imprese (Lidia), servono come diaconi e patroni (Febe), collaborano con Paolo nel Vangelo (Evodia, Sintiche) e sono identificate come apostoli (Giunia). E se c’è una responsabilità più grande nella storia dell’uomo di portare in grembo il Messia, vorrei sentirne parlare.
In ognuno di questi casi, le donne in questione servono il popolo di Dio proprio in quanto donne. Molte sono descritte come madri, sorelle o figlie. Non c’è alcuna confusione tra i sessi in queste storie, come se gli uomini e le donne fossero interscambiabili nelle loro parti (“le donne possono fare tutto ciò che possono fare gli uomini”). A volte Galati 3:28 viene interpretato in questo modo, come se fosse essenzialmente una buona dichiarazione di femminismo di seconda generazione ante litteram. Ma Paolo non sta confondendo la distinzione tra i sessi, né sta facendo una considerazione sugli incarichi di leadership nella chiesa: egli sta insistendo sul fatto che tutti noi siamo ugualmente figli di Dio sulla base della fede, indipendentemente dal sesso, dall’etnia o dallo status sociale. Il capitolo successivo è uno dei passaggi più sessuati di tutti i testi di Paolo (figli, padre, Figlio, nato da donna, Abbà Padre, nell’angoscia del parto, donna schiava, donna libera, la Gerusalemme di lassù è nostra madre), rivelando fino a che punto il sesso biologico sia ancora importante, anche se non influisce in alcun modo sul nostro status di figli di Dio giustificati, battezzati e adottati.
La forza di questi esempi risiede piuttosto nel fatto che le donne possono fare ogni sorta di cose che gli uomini non possono fare o non fanno, e viceversa. In quanto tali, le donne della Scrittura smentiscono non solo la confusione tra uomini e donne (come se non ci fossero distinzioni di sesso), ma anche l’alterità tra uomini e donne (come se gli uomini facessero tutte le cose importanti e le donne fossero essenzialmente osservatrici passive). Esse ci presentano una prospettiva di autentica complementarietà in cui l’uomo ha bisogno della donna e la donna ha bisogno dell’uomo, e l’immagine di Dio si esprime quando entrambi servono insieme. Se si toglie l’uno o l’altro, o se si sminuisce il valore dell’uno o dell’altro, siamo tutti impoveriti. La chiesa è una famiglia e fiorirà solo nella misura in cui valorizzeremo, onoreremo e stimeremo sia le madri che i padri, sia i fratelli che le sorelle, sia i figli che le figlie.
La vera complementarietà, quindi, è in realtà la base per equipaggiare e liberare le donne nel ministero, piuttosto che (come spesso è diventato) un ostacolo ad esso. Romani 16 è una grande provocazione qui: è difficile immaginare una giovane donna della chiesa di Roma che si lamenta della mancanza di modelli femminili nel servizio cristiano! Potrebbe guardare a Febe, diaconessa e sostenitrice di molti; a Prisca, che ha rischiato la pelle per la vita di Paolo e co-ospita una chiesa domestica; a Maria, che ha lavorato duramente per i credenti di Roma; a Giunia, compagna di prigionia di Paolo e degna di nota tra gli apostoli; a Trifena e Trifosa, lavoratrici nel Signore; alla madre di Rufo, che è stata una madre anche per Paolo; e a molte altre. Le donne costituiscono quasi la metà delle persone nominate in questo capitolo. Uno degli inconvenienti (e ce ne sono diversi) nel mettere in risalto la figura dell’anziano, senza (spesso) nominare o riconoscere i diaconi, è lasciare intendere che il ministero cristiano serio – così come la stragrande maggioranza delle nostre opportunità di sviluppo della leadership, dei ruoli ministeriali formali e degli stipendi – è fondamentalmente riservato agli uomini. Se facciamo questo mentre prendiamo tutte le decisioni importanti in gruppi di soli uomini e teniamo a distanza le donne con dei talenti per motivi di purezza e/o collegialità nelle nostre équipe, possiamo finire per sostituire la gloriosa complementarità di Romani 16 con un clima da questo-è-un-lavoro-da-uomini, in cui le donne possono servire come lavoratrici per i bambini o cantanti di supporto, ma non molto altro. Dobbiamo fare di meglio.
Sfide contestuali
I fattori contestuali, in particolare, hanno reso la fedeltà più difficile per noi. Uno di questi è l’ambiente culturale dell’evangelismo nordamericano, nel quale (nel bene e nel male) si trova la maggior parte dei nostri influencer teologici. Sia l’idillio conservatore degli anni Cinquanta che quello progressista degli anni Sessanta incombono negli Stati Uniti più che altrove, e la discussione su uomini e donne nella chiesa si è intrecciata con ogni sorta di altre conversazioni su tradizione, cambiamento sociale, ordine, relazioni razziali, sessualità, armi, aborto, economia e politica. Questo contesto culturale, in cui la questione di chi serve come anziano è collegata a questioni su chi parla pubblicamente in una riunione di chiesa, chi prende decisioni e persino chi guida l’auto di famiglia, non si applica bene in altre parti del mondo. A volte, ci siamo preoccupati così tanto di opporci all’ondata culturale che abbiamo esagerato con le correzioni e siamo finiti in un territorio extrabiblico (o addirittura non biblico), per esempio proiettando l’America centrale del dopoguerra nel Nuovo Testamento, sminuendo le nostre sorelle, liquidando coloro che non sono d’accordo con noi come liberali e difendendo visioni eterodosse della Trinità.
Un’altra complicazione, soprattutto in Occidente, è la tendenza a vedere e organizzare la chiesa in termini sempre più aziendali piuttosto che familiari. In una famiglia, tutti sanno che sia le madri che i padri hanno ruoli vitali da svolgere nella conduzione condivisa, e allo stesso tempo ci sono alcune cose che fa la mamma e altre che fa il papà. In molte culture è comune che la famiglia sia guidata da un marito/padre, responsabile in senso più generale e definitivo della protezione della casa, ma è anche comune che la maggior parte delle decisioni sia presa dalla moglie/madre. In un ambiente di lavoro o aziendale, invece, la stima e l’onore non vengono attribuiti in questo modo: questi si ottengono attraverso la posizione, la gestione di linea, il profilo pubblico, la supervisione finanziaria, l’autorità formale e il salario. Se, nonostante la nostra teologia, la chiesa funziona più come un’azienda che come una famiglia (e ci sono molte ragioni per cui può insinuarsi questa tendenza), è facile capire come la nostra attuazione della complementarietà possa ridursi a come si viene chiamati, dove ci si siede, quando si parla, chi si gestisce e quanto si viene pagati .
La Chiesa è una famiglia, non un’azienda
Questo è ciò che rende così cruciale che mettiamo in pratica ciò che predichiamo sulla chiesa come famiglia. Negare che una donna possa essere un anziano suona come l’equivalente di negare che una donna possa essere un amministratore delegato. Ma è piuttosto l’equivalente di negare che le donne possano essere padri e che gli uomini possano essere madri. Affinché questa prospettiva sia fondata sulla realtà, è fondamentale che la chiesa non sia solo chiamata una famiglia, ma che sia vista come una famiglia; che riconosciamo i padri e le madri e li onoriamo e li riveriamo come tali, piuttosto che (come può facilmente accadere) operare con un modello fondamentalmente aziendalista in cui le donne sono semplicemente escluse da tutte le posizioni o discussioni chiave.
L’applicazione, su questo punto, ovviamente varierà molto a seconda della cultura, del contesto, delle dimensioni della chiesa, dei modi di esprimere la famiglia e così via. Sarà necessaria la saggezza di uomini e donne per stabilire le prassi migliori. Ma ritengo che sia un’area in cui noi occidentali abbiamo molto da imparare dai nostri fratelli e sorelle dalla Maggioranza del Mondo (in inglese “Majority World”, un termine con il quale si fa riferimento ai Paesi non occidentali, N.d.T.).
Potrebbe anche essere un’opportunità per vedere all’opera la meravigliosa differenza.
Articolo apparso originariamente in lingua inglese su The Gospel Coalition.