Dagli attacchi terroristici all’ingiustizia razziale, dal caos politico a un mondo sempre più laico che sembra aver perso il suo centro morale: ci troviamo in tempi singolari e difficili. La paura dilaga nel nostro panorama culturale e, in maniera sempre crescente, la paura siede tra le file delle nostre chiese. Parlando con la maggior parte dei cristiani, o leggendo i blog cristiani e i social media, è subito chiaro che la chiesa non è quella che era. O meglio: non è al punto in cui era.
Vivendo come cristiani in questo momento culturale, ognuno di noi dovrà rispondervi, in un modo o in un altro. Possiamo farlo dopo un’attenta considerazione, o possiamo farlo basandoci sull’istinto o su ciò che faranno tutti gli altri nella nostra chiesa, ma in un qualche modo risponderemo. In genere si tratterà di un tipo di risposta che seguirà uno di questi tre approcci: convertire la cultura, condannare la cultura o “consumare” la cultura (concetti che ho preso in prestito dal libro di Andy Crouch Culture Making).
Credo però che ognuno di questi approcci sia problematico e che manchi di qualcosa di fondamentale e biblico: il coraggio.
“Convertire” la cultura
Secondo questa mentalità, ciò che conta di più è che la cultura della nostra nazione rifletta i principi e i valori biblici. Purché ciò avvenga, i sostenitori di questo punto di vista sono disposti a fare di tutto, anche se ciò significasse stringere alleanze con politici e partiti corrotti, o fare ciò che potrebbero vedere come compromessi morali minori. Si pensi al “Christian Right”, specialmente in tempi recenti.
Ma questo approccio, in particolare in un tempo come il nostro in cui la chiesa non occupa un’alta posizione culturale, lascerà molte persone frustrate e amareggiate. Lo ha già fatto. Perpetuerà solo le “guerre culturali”, un atteggiamento francamente arrogante che contrappone la chiesa al mondo e non traccia una linea sana tra il regno di Dio ora e il regno di Dio a venire.
“Non è possibile usare la politica per costruire la nuova Gerusalemme e non si può legiferare sulle persone per farle entrare nel regno di Dio.”
Non farò finta che non ci siano alcuni aspetti positivi nella “conversione della cultura”. D’altronde si può far risalire gran parte delle sue radici al lavoro di teologi straordinari come Abraham Kuyper e Francis Schaeffer. Essa riconosce la realtà che i cristiani dovrebbero essere coinvolti nell’intera cultura, cercando di trasformarla tramite la potenza di Cristo, attraverso il quale tutte le cose sono state create e tutte le cose sono sostenute. Dopotutto Cristo non è solo il Signore della chiesa, ma del mondo.
E sì, come cristiani siamo chiamati a cercare il bene di coloro che ci circondano, a perseguire la giustizia, ad amare il bene ed evitare il male. Ma siamo nei guai quando confondiamo la città terrena con la città celeste. Finché Cristo non tornerà, questo mondo non sarà mai come dovrebbe essere. Non puoi usare la politica per costruire la nuova Gerusalemme e non puoi legiferare sulle persone per farle entrare nel regno di Dio.
Infatti direi proprio che i compromessi e le empie alleanze strette dai cristiani al fine di “convertire” la cultura abbiano portato molte persone ad essere più sospettose e indurite nei confronti del messaggio della chiesa, e non le biasimo.
“Condannare” la cultura
Questa è l’idea di rimuoversi dal mondo, di ritirarsi in una sottocultura e prendere le distanze dalla cultura dominante, poiché la società è peccaminosa, corrotta e antitetica rispetto al vangelo di Gesù Cristo.
Questa corrente di pensiero è sempre stata parte della risposta della chiesa alla sfida di vivere in questo mondo. Possiamo vederlo nella costruzione dei monasteri. Possiamo vederlo in diversi aspetti del movimento anabattista. C’è sicuramente qualcosa di ammirevole e di bello in tutto questo. Dio chiama il suo popolo alla santità. Le Scritture sono chiare sul fatto che la chiesa sia distinta dal resto del mondo. Dobbiamo essere sale, dobbiamo avere un “sapore” diverso.
La mia preoccupazione è che, di per sé, non penso che questo concetto sia poi così biblico. Dobbiamo essere “il sale della terra” (Mt 5:13), e il sale mantiene il suo sapore mentre viene strofinato sul cibo che deve essere conservato. Ma non solo: diffonde anche il suo sapore. Arriva un momento in cui dobbiamo effettivamente sporcarci le mani, mostrando e condividendo la buona notizia di Cristo, e la vicinanza e le relazioni sono essenziali per poterlo fare. Ciò richiede coinvolgimento nella comunità locale e nella “piazza pubblica”. Se il popolo di Dio dell’Antico Testamento, durante l’esilio dalla sua patria, era chiamato a cercare “il bene della città” di Babilonia (Gr 29:7), allora noi dovremmo fare lo stesso nelle nostre città.
“Chiudere con la cultura non ci farà chiudere con il peccato.”
La verità è che, che si parli di cibo, tecnologia, musica o altri divertimenti, Dio ci dà queste cose come buoni doni di cui godere, purché li teniamo al posto giusto e non eleviamo la creazione al di sopra del Creatore. Possiamo essere scettici nei loro confronti, ma non dovremmo averne paura. La cultura non è la fonte del male, il cuore dell’uomo lo è (Mc 7:18–23). Pertanto chiudere con la cultura non ci farà chiudere con il peccato.
“Consumare” la cultura
Questa idea è per molti versi la più attraente, la più diffusa e anche la più spaventosa. Si tratta di seguire le tendenze e uniformarsi alla cultura dominante. Ovunque ci sia disaccordo tra la cultura dominante e l’insegnamento cristiano storico, il secondo si adatterà al primo. Dopotutto, se vogliamo rimanere al passo in un’epoca post-cristiana, alcune robe tipicamente cristiane andranno eliminate, giusto?
Nella maggior parte dei casi coloro che adottano questo approccio iniziano bene, con buone intenzioni di vedere dove la Bibbia parla con coraggio e chiarezza riguardo questioni sociali che spesso ignoriamo e accoglie la connessione tra fede e cultura. Come ha detto Tim Keller, di Manhattan, con la sua critica a questa posizione nel suo libro Center Church:
Questo modello vede il cristianesimo come fondamentalmente compatibile con la cultura circostante. Coloro che abbracciano questo modello credono che Dio sia all’opera in modo redentivo in movimenti culturali che non hanno esplicitamente nulla a che fare con il cristianesimo.
Ma il problema arriva quando iniziamo a concentrarci troppo sulla cultura e trascuriamo il vangelo, e questo vale anche per quanto riguarda la giustizia sociale. Iniziamo a desiderare le implicazioni del vangelo più di quanto non desideriamo il vangelo stesso. Chi adotta l’approccio del “consumo della cultura” mette la cultura davanti a qualsiasi cosa, davanti alla Scrittura, trascurando e compromettendo così gli aspetti significativi della fede. Questi uomini e queste donne cominciano ad assomigliare sempre di più al mondo e sempre meno alla chiesa.
“Quando è la voce di una cultura, e non la parola di Cristo, a governare la chiesa, allora non è più la chiesa di Cristo.”
Quando è la voce di una cultura, e non la parola di Cristo, a governare la chiesa, allora non è più la chiesa di Cristo. È solo un club di persone che cercano disperatamente di tenere il passo con lo “spirito contemporaneo”. Ironia della sorte, questo è il modo più rapido per chiudere una chiesa. Perché qualcuno dovrebbe frequentare una chiesa che è indistinguibile da qualsiasi altra cosa?!
Un atteggiamento di coraggio
Questi tre approcci (convertire la cultura, condannare la cultura e consumare la cultura) sono tutti diversi, ma penso che abbiano qualcosa in comune. Direi che sorgono, in parte, per paura. Quelli che cercano di “convertire la cultura” temono di perdere la loro, e pensano che, se non fanno i compromessi necessari per continuare la guerra culturale, la chiesa non possa prosperare, e nemmeno sopravvivere. Quelli che “condannano la cultura” temono che la cultura corromperà loro e la chiesa. Quelli che “consumano la cultura” temono che la chiesa diventi inaccettabile, e quindi irrilevante, per coloro che sono immersi nella cultura post-cristiana.
Data la nostra tendenza alla paura in questo momento culturale, sono convinto che non ci sia necessariamente bisogno di un’altra strategia che coinvolga la cultura e che, piuttosto, abbiamo bisogno di un rinnovato atteggiamento di coraggio. Questo è ciò di cui i cristiani hanno più bisogno in un mondo post 11 settembre, post-cristiano, post-moderno, post-tutto. Se i nostri cuori non sono nel posto giusto, se le nostre speranze sono malriposte, qualsiasi cosa cercheremo di fare sarà sbagliata e di breve durata.
Se abbiamo un coraggio grande quanto Dio, dato da Dio, allora saremo liberi di essere il suo popolo, di vivere la sua missione, e saremo contraddistinti dalla sua gioia. Con coraggio, questa stagione della storia può essere vista non con paura e trepidazione, ma con speranza e senso di opportunità. Con coraggio, le nostre prospettive cambiano e possiamo essere emozionati e incoraggiati dalle nostre circostanze, e non più essere intimiditi, arrabbiati o paralizzati da esse.
Quando avremo un tipo di coraggio radicato nella natura immutabile di Dio, avremo le giuste intuizioni e le giuste motivazioni per destreggiarci nella natura in continua evoluzione di questo mondo, qualunque cosa accada.
Nota dell’editore:
Questo è un estratto adattato da Take Heart: Christian Courage in the Age of Belief (The Good Book Company, 2018).