Josh, un mio amico pastore, era contento di sapere quanto fosse stato ben accolto il mio dottorato di ricerca su Keller, il teologo e pastore di Manhattan (nonché fondatore di chiese) di cui il mio amico era ammiratore quanto me. Mi ha chiesto: “E quindi qual è il prossimo passo? Cosa suggerisci? Devo studiare Center Church? Magari dovrei leggere tutti i suoi libri? O guardare i suoi podcast?” Senza pensarci mi è uscito un “No. Fai ciò che dice lui!” La mia risposta istintiva ha sorpreso tanto me quanto il mio amico. E, dopo aver riflettuto su questa risposta, la riconfermo. Completamente. Keller è oro, leggetelo e ascoltatelo. Ma fermarsi a questo vorrebbe dire perdere di vista l’obiettivo.
Sottoscrivere tutto ciò che Keller ha insegnato dovrebbe avere delle implicazioni radicali nel nostro ministero.
Questa domenica (N.d.T 19 maggio 2024, quando è stato scritto l’articolo) è esattamente un anno da quando Keller è stato chiamato a stare per sempre con il Signore. Ma posso ancora sentirlo. Ascolto la predicazione contemporanea e sento i “Kellerismi“. Sento la sua teologia satura di grazia. Sento l’esposizione sulla perdizione del fratello maggiore. Sento la sua teologia biblica (Cristo è il vero e migliore). Sento l’insistenza sul fatto che il Vangelo non può essere collocato in nessuna categoria perché completamente diverso da qualsiasi altra cosa. Sento il mettere in crisi i nostri idoli. Sento le svolte sagge nell’apologetica. Sento l’appello al cuore, quell’invito caldo e accattivante. È meraviglioso sentire questi echi di Keller.
Ma Keller non si è limitato a credere nel vangelo in modo giusto o ad insegnarlo in modo chiaro: lo ha manifestato con la sua vita e con il suo ministero. Come missiologo, è stato sia un inestimabile teorico che uomo dedito alla pratica. Con questo intendo dire che Keller ha agito in base alle sue convinzioni sia nel ministero che nella missione. Ed è così che dovremmo fare anche noi. Non è sufficiente essere d’accordo con Keller. Come lui stesso sosteneva, il pastore deve pensare, pregare, imparare, ascoltare, pianificare, predicare, amare e vivere come un missionario interculturale, ovunque si trovi. È per questo che sottoscrivere tutto ciò che Keller ha insegnato dovrebbe avere delle implicazioni radicali nel nostro ministero. Ne elencherò tre.
1. Diventare un esegeta culturale
Un pastore che sia stato scelto per un determinato ruolo di pastorato (sia esso a Londra, Harare o Città del Capo) non dovrebbe presumere di conoscere la cultura, la visione del mondo e gli impegni ecclesiastici di coloro che è chiamato a servire. È infatti probabile che il pastore non sia nemmeno consapevole di quali siano i fattori chiave che girano intorno al “suo” contesto, trovandosi lui immerso in esso ed essendone fondamentalmente parte. Se volete sapere com’è l’acqua, non chiedetelo a un pesce! Non date per scontato di sapere.
Il pastore deve diventare un esegeta culturale, oltre che biblico.
Il pastore deve diventare un esegeta culturale, oltre che biblico. Deve sforzarsi di conoscere eccezionalmente bene il luogo in cui si trova e la gente che ci vive. Dovrebbe conoscere la storia, le tradizioni, i modi di dire, le canzoni, le lotte, le gioie, la politica, gli idoli, le speranze, gli impegni religiosi, le paure, le dinamiche familiari, i bisogni fisici, i bisogni materiali, le sfide quotidiane e le criticità che le persone intorno a lui devono affrontare. La maggior parte dei fan di Keller non ha la minima idea di quanto lavoro lui abbia fatto in questa direzione.
Oggi l’idea dell’esegesi culturale può sembrare alla moda. Forse lo è a Manhattan, a Parigi o a Ibiza, ma vi garantisco che non lo è in una baraccopoli messicana o in un’enclave infestata dalla droga a Cape Flats (la periferia di Città del capo, N.d.T).
2. Portare il Vangelo ad agire sulla cultura
Nel fare questa esegesi culturale, il pastore si chiede sempre: in che modo il Vangelo sovverte e realizza le aspirazioni di queste persone? in che modo il Vangelo vince sui loro idoli? Come posso contestualizzare la buona notizia immutabile di Gesù Cristo in un modo che sia ponderato, attento e fedele in questo tempo e in questo luogo?
3. Prestare attenzione alla mentalità da ghetto
È triste, ma la tendenza quasi inevitabile e spesso impercettibile è che i pastori, con il passare del tempo, diventano sempre meno connessi con i non credenti e operano nella sicurezza della bolla ermetica della chiesa. Occorre opporsi attivamente e consapevolmente a questo fenomeno. Succede molto facilmente, e a volte rapidamente. Sarebbe impensabile che i pastori sul “campo di missione” spendessero tutto il loro tempo e le loro energie solo con i credenti.
Il ministero è tangibile. Non si tratta di turismo religioso.
Il ministero è tangibile. Non si tratta di turismo religioso né di un “mordi e fuggi” e nemmeno dell’essere dei sociologi benevoli. Il ministero cristiano è essenzialmente relazionale, ha a che fare con l’amare le persone. Amare davvero le persone. Si tratta di mettere radici. Si tratta di servire.
Imitare il ministero missionario di Keller
Riflettete su questi tre punti. Per il missionario interculturale si tratta di punti incontestabili. È l’ABC delle missioni. Ma è davvero così che la pensiamo nel “campo di missione” dell’Occidente? Ho suggerito i libri, gli articoli e i podcast di Keller al mio amico Josh, e lo stesso faccio con voi. Ma il mio ammonimento è che non dobbiamo limitarci a ripetere la fraseologia di Keller. Dobbiamo cercare di replicare le caratteristiche del ministero di Gesù, sia che ci troviamo a Johannesburg, a Seoul o a San Paolo. Quindi fate ciò che dice Keller.
Articolo apparso originariamente in lingua inglese su The Gospel Coalition.